La schiavitù dell'ego

Come si libera la mente dall'essere schiava dell'ego?
Questa domanda, che ritroviamo spesso nei testi che spiegano l'Advaita, deve essere interpretata con molta chiarezza, in quanto la sua semplice formulazione nasconde diversi impliciti rinforzi all'idea di separazione e dunque di dualità.
Un'analisi dell'enunciato rivela infatti il presupposto che ci sia ″qualcuno″ (chi?) che agisce sulla mente (ponendosi pertanto come soggetto esterno rispetto ad un oggetto da lui ″separato″) e che la mente sia a sua volta influenzata da un ulteriore soggetto (l'ego) che si pone come controparte sia della mente sia del suo ″liberatore″. Insomma, un triangolo di relazioni.
Se ci lasciamo coinvolgere in questo ″gioco delle parti″ (il soggetto−sé, la mente e l'ego) convalidiamo di fatto una separazione formale all'interno del soggetto−individuo. D'altronde, per creare l'esperienza della ″liberazione″ servono: un prigioniero, un carnefice e un liberatore. E in questo modo abbiamo tutti e tre!
Dal punto di osservazione della non−dualità, ″la schiavitù della mente″ è dunque l'altro lato della medaglia del ″processo di liberazione″, che è solo una delle infinite esperienze dell'essere umano. Essere umano che è a sua volta solo una delle infinite modalità (o processi) di manifestazione dell'ente unico universale.
Con una metafora: se prendiamo un cerchio e lo ″rimodelliamo″ trasformandolo in un triangolo, diventa possibile individuarne i tre distinti vertici e stabilire i rapporti che esistono fra di essi, ma nella sostanza, o natura, sono solo la momentanea trasformazione dell'unico originario cerchio.