L'unità dell'io è l'unità stessa del reale nella sua unificabilità e moltiplicabilità. È chiarezza in ogni momento di quell'unità, ma mistero in ogni momento di quella molteplicità.
Ed è per questo motivo, per la compresenza nell'immediatezza della coscienza di un'unità che è tutta idealmente già fatta e di una storia che è tutta invece realmente da fare, che la mente intuisce l'eterno. Eppure non sa ricavarlo dalla somma dei tempi, intuisce l'illimitato eppure non sa ricavarlo dalla somma degli spazi, intuisce cause, scopi, grandezze, qualità, bellezze, verità, bontà infinite, eppure non sa ricavarle dalle somme del sensibile. La linea di demarcazione tra l'esistente e l'inesistente è dunque in ogni momento oltrepassata perché in effetti non esiste. Quello che noi chiamiamo ordinariamente un fatto non è mai sorto dall'inesistente, bensì attraverso una gradualità di passaggi tutta contesta di meccanicità di istinti, di tendenze e quindi di aneliti, di concetti, di idee, di sforzi e di superamenti che sono a loro volta già tutta un'esistenza, l'esistenza che si propaga a fare l'altra esistenza. Nel distendersi in risveglio di coscienza verso sempre più futuri orizzonti ci si scorge una prospettiva infinita ove l'esistente e l'inesistente vanno modificandosi nella continuità che entrambi li comprendeva, come rimandando per analogo risveglio di coscienza verso sempre più remoti orizzonti ci si scorge un passato ove l'esistente continuamente si riversava nel nuovo esistente e mai svaniva perché sempre si accumulava per evolversi ed incidere così maggiormente l'inesistente e non sempre più vasto quadro della prospettiva futura.